Altro

Tuesday, November 3, 2009

Le Micromachine e la metafisica delle cose comuni

Il pensiero si ferma, ad un certo punto, accettando certe entità come fondamentali (che si chiamerebbero noumeni). La descrizione del reale diventa quindi la narrazione delle relazioni tra le entità fondamentali.
Il pensiero scientifico si distingue da quello religioso (teologico) perché finisce inesorabilmente per interrogarsi sulla natura stessa delle entità (temporaneamente) fondamentali. Il pensiero teologico difficilmente si avventura nella critica dei fondamentali, in quanto, per un assunto piuttosto arbitrario (l'identificazione del divino con l'umano), i fondamentali sono prestabiliti nei termini (tipicamente antiquati) di un linguaggio per ipotesi esatto.
Nel film "Constanine," il protagonista chiede a un personaggio di uscire dall'appartamento e chiudere la porta completamente, pena non riuscire a connettersi con qualche altra dimensione. Ma cosa vuol dire "chiusa?" Cos'è la "porta?" Queste domande non risalgono alla mente dei personaggi (e forse nemmeno in quella degli sceneggiatori e scrittori della storia). Nella realtà del film, la "porta" e l'"appartamento" sono entità fondamentali, privi di una struttura, incapaci di essere qualcos'altro. Poco importa se la porta viene da un legno tagliato in una foresta o in un'altra, o se qualcuno vi abbia inciso un cuore o un "666" sulla corteccia prima che l'albero venisse abbattuto. Allo stesso modo, "chiuso" è un concetto che si presta a parecchie variazioni: "chiuso a chiave" è più chiuso di "chiuso e basta"? Se la porta e il suo battente sono composti di atomi, possiamo definire in qualche modo il concetto di "chiusura?" In una interpretazione quantistica dovremmo davvero distinguere il "dentro" e il "fuori" ("O DENTRO O FORA! BASTA CHE TE XARI CHEA PORTA!!" diceva mia mamma esasperata)? Alla scala di Plank ha senso parlare di "porta" e "battente," o dovremmo vedere l'una solo in relazione all'altro e viceversa?
Ecco la domanda che tutti vi sarete fatti almeno una volta: cos'è una porta alla scala di Plank?
Insomma, siamo davvero sicuri che gli angeli e i demoni del film agiscano in una realtà le cui entità fondamentali sono le stesse dei personaggi terreni? Non so voi ma io non ci dormo la notte.
Ma sto temporeggiando. Cosa centrano le Micromachine?
Nel videogioco omonimo, un veicolo che usce dai bordi dello schermo perde un punto. Prima di far partire il gioco lo schermo è quella superficie dove vediamo immagini che mutano, quando il gioco parte vediamo una realtà in cui lo spazio e il tempo mutano in funzione della posizione sullo schermo della macchinina in testa alla gara. Siamo di fronte a una realtà alternativa con differenti entità fondamentali.
Questo, credo, è il motivo per cui, alla presentazione dell'idea del gioco, siamo colti dallo stesso tipo di sorpresa che si ha quando ci si approccia a una teoria fisica che sposta, o cambia, i fondamentali acquisiti del reale. Il nostro cervello viene sottoposto a un certo tipo di sussulto che fa cambiare il punto di vista. Da quel momento in poi la realtà sarà determinata dalla posizione dello schermo su un ambiente virtuale, per poi tornare, un po' meno saldamente, al reale fatto di porte, aperte o (esclusivo) chiuse, e di appartamenti. Nelle teorie fisiche, a volte, non si può tornare indietro così facilmente, o lo si fa accettando l'approssimazione che necessariamente il quotidiano ci impone.

Thursday, March 19, 2009

Convenienza e Responsabilità

"Una vera riforma non si fa con regolamenti più efficienti, con un maggior numero di leggi, ma assegnando responsabilità individuali e fornendo gli adeguati incentivi alle azioni virtuose. L'incentivo è necessario perché l'animale uomo si comporti da animale sociale. Ogni persona deve avere un obiettivo, e la convenienza a raggiungerlo. Se non lo fa si prende tutta la responsabilità della propria scelta. Questo rende il sistema meritocratico."

La meritocrazia è un sistema che cerca di favorire comportamenti virtuosi. Il problema della meritocrazia, problema molto serio, è la valutazione del merito. Come si può valutare un infermiere che magari fa iniezioni dolorose ma è capace di tirare su l'umore del paziente più depresso? E chi dovrebbe valutarlo?

A questa domanda i politicanti risponderebbero che si devono istituire commissioni e sperperare denaro, mentre la risposta dovrebbe essere molto semplice: chi ha assunto quell'infermiere lo deve valutare. Nell'osceno sistema Italia, nelle ASL, chi assume è, formalmente, lo stato stesso, quindi ecco la necessità di commissioni e altre burocrazie inutili. Nell'università è lo stesso: lo stato assume un ricercatore, dopo che una commissione di persone interne all'ateneo in questione effettua la selezione. Dopo tre anni il ricercatore viene valutato per decidere se confermarlo in ruolo o no, e qui scatta il meccanismo più bello: altre persone, interne all'ateneo, decidono se il merito del ricercatore è buono o no. In tutto questo processo, le persone che hanno preso la decisione di assumere, e quelle che hanno preso la decisione di confermare, non hanno praticamente nessuna responsabilità sulle decisioni prese. Quello che conta è che si seguano dei passi formali, facilmente plasmabili, e il gioco è fatto. Chi assume, si è dimenticato di chi ha tirato dentro, e chi conferma continua il proprio lavoro tranquillamente.

Mi pare ovvio che quello che manca è l'assegnazione della responsabilità diretta delle persone che prendono effettivamente le decisioni, negli esempi qui sopra relegandola allo Stato.

Una vera riforma non si fa con regolamenti più efficienti, con un maggior numero di leggi, ma assegnando responsabilità individuali e fornendo gli adeguati incentivi alle azioni virtuose. L'incentivo è necessario perché l'animale uomo si comporti da animale sociale. Ogni persona deve avere un obiettivo, e la convenienza a raggiungerlo. Se non lo fa si prende tutta la responsabilità della propria scelta. Questo rende il sistema meritocratico.

Chi ha assunto qualcuno che si è rivelato un incapace, deve pagarne le conseguenze, in termini di immagine, guadagni, o anche dello stesso posto di lavoro.

Non sento nessuno dire cose del genere, sento policanti parlare sostanzialmente si assistenzialismo o di rendere legale l'illegale, ma nessuno parla di una riforma seria. Ma io, sono di destra o di sinistra?

Saturday, February 21, 2009

Escape from Laudraz



Escape from Laudraz
Inserito originariamente da bianco_mauro




No Comment
Non dovrei dirlo ma non riesco a smettere di ridere vedendo la mia stessa foto. Ci sono tre possibilità: 1) la foto è effettivamente divertente, 2) sono vanaglorioso, 3) sono pazzo.

Wednesday, February 11, 2009

Analisi semiseria di un regime

Hitler nel 1933 aveva 44 anni. Mussolini nel 1925 ne aveva 42. Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco y Bahamonde, Salgado y Pardo de Andrade ne aveva 44 nel 1936. Saddam Hussein nel 1979 ne aveva 42 anche lui. Mahmoud Ahmadinejad 49 nel 2005, vecchiarello, ma Pinochet era più vecchio: 58 anni, la stessa età di Berlusconi nel 1994, per capirci.

I primi dell'elenco sono tutti in fascia "mezza età". Nel saggio "Della potenza sessuale" di Richard von Brusterr (Edizioni Minck, 1964), questa è l'età in cui, a causa di tormenti sulla propria virilità, si cercano affermazioni altrove. Chi si compra una porsche, chi diventa dittatore, chi costruisce Milano Due. Questa fase ha successo se il soggetto riacquista la perduta autostima. In caso contrario l'ansia da prestazione si traduce in un sempre più affannoso tentativo di sublimazione dell'impotenza in azioni di potere. A qualcuno alla fine riesce il passo determinante. Pinochet a 58 anni assume il potere e, frustrato da anni di serate in bianco e dal terrore dell'oblio, fa di tutto per farsi ricordare. Alcuni, tipicamente privi del gene della vergogna e piuttosto ignoranti, continuano a tentare, riuscendo solo, il più delle volte, ad abbozzare pallide imitazioni di un regime serio, rimanendo nel cono d'ombra della storia, apparendo al più come macchiette divertenti, curiosità bizzarre, come il popolo che li ha eletti. I più stupidi fra tutti non si fermano nemmeno quando l'età dovrebbe suggerire loro la bocciofila al posto del potere assoluto. Tra una bocciata e l'altra qualsiasi barzellettina mediocre, specie se sporca, suscita qualche risata, nelle sale del governo, invece, solo un po' di pena e compiacenza ruffiana. Ma visto che il benessere dell'individuo è la cosa più importante, che li si lasci fare a questi poveretti, in fondo poi tutto passa, la meschinità come la crudeltà. Sulle loro tombe scriveranno: "da giovane non era poi così male."

Postfazione:
Il post nasce dalla delusione e la rabbia suscitatemi dal caso Englaro, lo scontro tra Berlusconi e Napolitano, che cortesemente -ma si può?- aveva pure avvisato il Silvio che non avrebbe firmato il decreto. La volontà del nano schifoso di forzare le istituzioni democratiche. Le vili opportunità di un piano piduista e sostanzialmente stupido. Lo smembramento della carcassa da parte di ogni tipo di saprofago politico e giornalistico. Lo schifo che ho provato e la paura per il futuro dell'Italia.
Il tono derisorio vuole essere espressione del mio massimo disprezzo per il pelato ignorante. Come ogni babbeo imbevuto di potere calpesta quel poco di buono che c'è in nome di qualche stupido pretesto. Fosse perché ce l'ha piccolo capirei, ma a una decina d'anni dalla sua stessa morte (in base alla durata della vita media), che sta cercando di fare?

Saturday, January 31, 2009

Chi ha inventato il cellulare?

Sto riflettendo sul futuro in questi giorni, come si può intuire dal mio post precedente. Sul futuro e la possibilità di immaginarlo.
Il telefono cellulare è un esmepio molto illuminante. Pare che nessun scrittore, o più genericamente visionario, abbia immaginato il cellulare. Sistemi di comunicazione avanzati, e ancora oggi fantascientifici, sono stati presentati in varie occasioni. Il più tipico esempio sono i walkie-talkie di Star-Trek e affini. Si trattava di strumenti per comunicazioni istantanee a distanze arbitrarie, ma sempre e comunque di sistemi di comunicazione dedicati. Non era possibile chiamare la moglie del capitano Kirk, quando lui era in missione sul pianeta Kraffen, e chiederle di uscire con te. Oggi si potrebbe pensare di poterlo fare: lei avrebbe un telefono e, magari, andando sulla pagina facebook di James T. Kirk, fare click e chiamarne la moglie. Lo sceneggiatore di Star Trek mi avrebbe deriso fino all'infarto.
Perchè? Espongo la mia teoria: il cellulare è una illusione. Mia nonna Agnese non è mai riuscita a capire che il mio cellulare non si collegava direttamente con il cellulare o il telefono fisso di quelcun altro. Il segnale della mia chiamata arriva a una antenna non troppo lontano da dove mi trovo, passa in qualche altro sistema, entra in una centrale, cerca la posizione dell'altro telefono e inoltra la richiesta. Si potrebbe quai pensare che il cellulare non sia del tutto wireless, se si esce dal raggio di azione delle antenne si è semplicemente tagliati fuori. Il cellulare, per quanto sofisticato sia, ha bisogno di una infrastruttura molto complessa e costosa, distribuita ovunque. Il discorso vale anche per il cellulare satellitare. Insomma, non si tratta di una tecnologia locale.
Mi spiego meglio.
Il tipico scrittore di fantascienza pare faccia fatica a immaginare cambiamenti così radicali. Il pianeta Terra è oggi cosparso di antenne, posizionate non da governi ma da imprese private (i governi danno al più le licenze). Un numero sorprendente di connessioni collega quasi ogni punto del mondo con una decente densità di popolazione, perché ne ricavano un margine di profitto. Qualcosa del genere non avrebbe mai potuto avvenire su sola spinta governativa.
Possiamo immaginare basi lunari, o città su Marte sotto enormi cappe di vetro, ma facciamo più fatica a immaginare un intero sistema globale/interplanetario costruito solo su basi economiche. In Doom3, Marte è sede di una struttura scintifico-economica organizzata come una specie di città a settori (idea vecchia come il genere fantascientifico stesso). La proprietà della struttura è di una compagnia che vende i propri prodotti all'industria delle armi, ai governi, etc. Con questo intendo una invenzione locale, centralizzata, un semplice rapporto a due, chi vende e chi compra. Il cellulare, o internet, è una realtà difficile da descrivere anche oggi che queste tecnologie sono realtà, e magari sono solo tecnologie a livello embrionale, chissà. Ma quello che sarà il futuro non è deciso in una pianificazione centralizzata, ma da complessi fenomeni di interazione e un continuum nell'evoluzione tecnologica.

Thursday, January 29, 2009

Reinventare il futuro

Si tratta di una di quelle cose ricorrenti, chiamate "delta di Luzzi," quelle inspiegabili co-occorrenze di eventi. Tipo vedi un'ampolla di scimmie di mare e dopo due giorni parlano sul giornale proprio delle scimmie di mare. In particolare, mi capita in questi giorni di imbattermi in articoli che parlano del futuro, su cosa sarà inventato da qui a cinquant'anni, su come sarà la società, su quali sono le possibilità che abbiamo davanti.
Mi pare di respirare.
Quando ero giovane (non troppo tempo fa) il futuro era fatto di auto volanti, robot che lavavano i piatti, gli stessi vestiti argentati per tutti, alieni dappertutto. Il tutto entro il 2000 o giù di lì. Poi è successo qualcosa di strano. Il futuro ha cambiato strada e ha sorpreso tutti. Ad un tratto i robot non c'erano più, al loro posto internet, cellulari, biotecnologie. A giudicare dai film usciti in questo periodo di sbigottimento possiamo notare un generale pessimismo, una paura epidermica. Io credo che questa paura derivi dal fatto che questo futuro non lo abbiamo immaginato noi. Star Trek, per dire, mostra un futuro di speranza, di razionalità, intelligenza. Nella società dei cellulari non mi è mai capitato di trovare una visione così ottimista. Anche Blade Runner non è un film pessimista: affronta temi esistenziali universali, ma in fondo il futuro, a parte che piove sempre, non aveva più inquietudine di un normale presente.
Il futuro negli ultimi dieci anni è Matrix, GATTACA, o anche Eagle Eye (per chi non lo avesse visto si tratta di un film abbastanza mediocre sul controllo che la tecnologia può avere sulla nostra vita).
Negli ultimi due giorni risento parlare di futuro in termini di: come si presenterà il mondo tra qualche decennio? Quali dispositivi avremmo a disposizione? Quale società? Mi pare un buon segno, dopo tutto, un modo per rialzare lo sguardo e ripartire con un qualche tipo di obiettivo.
Invece che essere soppraffatti da un incomprensibile presente, in cui compri un oggetto ed è già vecchio, in cui il web ti offre servizi a cui non avevi nemmeno mai immaginato prima, forse, e sottolineo forse, stiamo acquisendo un minimo di controllo. Puoddarsi che siamo finalmente in grado di digerire quello che abbiamo e pensare ad altro, inventare qualcosa noi stessi per noi stessi.
Potrebbe trattarsi di un effetto della crisi, che come dicono quelli che non sanno il cinese, in cinese vuol dire cambiamento. Ma tant'è, mi pare che questa percezione di rallentamento (non parlo del rallentamento vero, ma del suo effetto sulla coscienza) possa avere degli effetti positivi.

Metodo scientifico a autorità

Kary Mullis discute (nel link a fine post) del metodo scientifico. La prima parte della presentazione è davvero interessante e divertente.
Cosa rende il metodo scientifico così efficace? La riproducibilità, il fatto che chiunque può riprodurre le medesime condizioni (cause) e ottenere i medesimi effetti. Cosa rende il metodo scientifico un grande modello per l'emancipazione del pensiero? La conseguente perdità di valore dell'autorità: se io riproduco un fenomeno che qualcuno dice non poter avvenire, quel qualcuno sbaglia, che sia il capo, un professore molto noto, il papa o il padreterno in persona.

La parte davvero difficile nel metodo scientifico è decidere a chi credere quando gli esperimenti non possono essere fisicamente eseguiti da chi vuole verificare la correttezza di una affermazione. E' il caso del riscaldamento globale, oggi fuori questione, ma molto dibattuto anni fa. Mullis si lascia trasportare dalla polemica e dice che questa storia è una stupidaggine, e che gli scienziati dicono quello che dicono solo per avere finanziamenti. Cosa parzialmente vera, e ci sono esempi di casi del genere. Quello che Mullis pare non capire è che ad un certo punto usa la frase: "questi scienziati sono autorevoli" e si affida a questa affermazione non provata per comprovare di essere nel giusto.

Quante volte al giorno noi facciamo lo stesso? Quante volte ascoltiamo una notizia al telegiornale e la reputiamo veritiera senza avere la minima prova che lo sia? Gli strumenti per determinare la veridicità forse non esistono in generale, ma ci sono almeno delle misure qualitative, dei metodi approssimati per capire in che direzione guardare. L'informazione dovrebbe fornire anche gli elementi per usare questi strumenti approssimati, inevece che, come fa ora, nasconderli o eliminarli.

Il video: http://www.ted.com/index.php/talks/kary_mullis_on_what_scientists_do.html
Su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=LNOtiRB3uyk

La formica indignata

Immaginate una formica intelligente che sul tavolino del salotto, intenta a sgraffignare delle briciole di biscotto, vede in TV un documentario sulle formiche. La descrizione non riguarda affatto le formiche, sebbene pretestuosamente dovrebbe esserlo, riguarda il formicaio, sul bilancio della popolazione, morti, nascite, sulle attività che vi si svolgono, il magico funzionamento di una società apparentemente semplice. La descrizione la sconvolge e la indigna, con le lacrime agli occhi cerca di urlare all'essere in mutande, che sul divano beve una birra col telecomando in mano. Vorrebbe gridare il suo sdegno per l'insensibilità sprezzante del programma. Lei che ha avuto decine, centinaia, di familiari morti, chi per essere stato schiacciato da un peumatico, chi per essere salito suo malgrado su una scarpa e non essere più tornato, o soffocato dalla terra durante un crollo, avvelenato da prodotti chimici diffusi intenzionalmente... Ogni giorno ogni formica esce allo scoperto, cercando di sopravvivere, sapendo benissimo che forse non tornerà indietro, o magari tornerà ferita e incapace di sostenersi. E la TV dice che le formiche sono organizzate e che la morte di migliaia non compromette la sopravvivenza del formicaio. Va bene, il formicaio non scompare o migra di qua e di là, e allora? Vi piacerebbe a voi umani se dicessero che in complesso la popolazione mondiale cresce, che i consumi aumentano o dimuiscono, il numero di incidenti stradali va così e così? Vi piacerebbe essere trattati solo in funzione del vostro formicaio? Io credo proprio di no, cred... SLAMMM! Cazzo un'altra formica in casa, meglio spruzzare l'insetticida sotto la porta.

Valutazione e meritocrazia

Non si fa che parlare di premiare gli atenei virtuosi, di creare un sistema meritocratico nell'Università. Il problema è che chi è incaricato di questo importante contributo nella vita culturale di un paese intero, non mi pare abbia la levatura culturale, né le conoscenze specifiche per arrivare a una soluzione di nessun rilievo. E non ce l'hanno avute nemmeno i precedenti, di qualunque parte politica essi si vantavano di essere.
Si parla di valutazione, ma nessuno mai è riuscito a far funzionare un sistema sensato. La Moratti ci provò, ma poi a fine legislatura, quando la sua candidatura a sindaco era ormai cosa nota, cedette e diede un finanziamento di molti milioni di euro al San Raffaele di Milano su fondi destinati alla ricerca informatica, fondi poi spesi per comprare un grosso computer IBM (va beh, questo mi scandalizzò parecchio all'epoca).
Il problema della valutazione è semplice: non si può fare! Le discipline scientifiche sono divise macro aree e in Settori Scientifici e Disciplinari (SSD), e sono molti, decine. In ogni settore poi ci sono molti filoni di ricerca. Ogni filone è caratterizzato da una comunità, l'insieme di persone che, nel mondo, si occupano di quella cosa. Ogni comunità ha certe regole, che riguardano il tipo di articoli scientifici, o prodotti scientifici, più in generale, che vengono ritenuti degni di tale nome. Ad esempio, in alcuni settori pubblicare un articolo ogni due anni è considerato un buon traguardo, in altri se ne devono fare 3 all'anno per essere competitivi.
Instaurare un sistema di valutazione indipendente, o oggettivo, richiederebbe una struttura di dimensioni enormi, e una spesa proporzionata. Non solo, per evitare conflitti di interesse (considerate che ci sono ricerche che hanno in Italia uno o due gruppi che ci lavorano) le persone chiamate a giudicare dovrebbero essere esterne, magari estere. Un breve parentesi: In una delle tante farneticazioni sulla riforma dei concorsi si era arrivati a proporre che le commissioni giudicatrici fossero composte da 5-6 ricercatori stranieri!! Ma vi rendete conto? Cosa volete che gliene freghi agli stranieri chi assumiamo noi? E quanti stranieri sarebbero disponibili a lavorare in tutte le commissioni di assunzione in Italia? Insomma, le solite smargiassate all'Italiana, le solite parole vuote di politicanti ignoranti e populisti (di entrambi gli schieramenti).
Insomma, costi improponibili e un sistema così complesso che nessuno è mai riuscito nemmeno a immaginare completamente, figuriamoci a realizzare. A parte dare un po' di soldi ai propri amici, questi politicanti non sembrano saper fare altro.
Ma esiste una soluzione? Probabilmente sì, ma richiede di ripensare a tutto il sistema. Invece che aggiungere strutture a un sistema già di per sè troppo complicato, un riforma -se degne di questo nome- deve rifondare l'istituzione per rendere i comportamenti virtuosi più convenienti, mentre oggi sembra accadere l'esatto contrario. Invece che cercare metriche semplici e generali che finiscono per penalizzare piuttosto che migliorare i sistema, si deve fare in modo che migliorare convenga: ovvero che migliorare porti soldi.
Faccio un esempio: quando si danno soldi in proporzione al numero di studenti laureati in un anno, non si arriva che all'effetto di ridurre la qualità dell'insegnamento (chi ha bazzicato l'università lo vede con i propri occhi quanto gli studenti attuali siano molto meno preparati di qualche anno fa). Se si finanzia la ricerca in base al numero di articoli pubblicati si finisce per dare soldi a filoni in cui si pubblica facilmente, rispetto a quelli in cui si sputa sangue per un risultato.
Se diamo all'università la convenienza a finanziare ricerche e progetti (Mio precedente post), allora le università avranno convenienza ad assumere gente brava, gente che la ricerca la fa, che di conseguenza insegneranno alle nuove generazioni in base a risultati allo stato dell'arte. Va beh, mi sono già dilungato troppo.

Finanziamenti a pioggia

Il lavoro del professore universitario (almeno quello che vuole lavorare) è di cercare fondi per finanziare la propria ricerca. E' un dato di fatto che la percentuale del tempo dedicata alla ricerca di fondi è in continuo aumento da quando all'inizio del diciottesimo secolo la scienza ha cominciato ad essere indipendente.
Escono con una certa regolarità bandi per l'assegnazione di fondi a progetti di ricerca. Questi bandi vengono dal ministero, dagli atenei, dall'unione europea. Esistono spesso delle clausole strane, specie nei bandi ministeriali e di ateneo. Ad esempio non è possibile fare richiesta per un bando di ateneo se già si ricevuto un bando di ministero, indipendentemente dal progetto. Ovvero, uno stesso proponente non può richiedere fondi su progetti diversi. Se io fossi davvero bravo, molto noto e capace ti attrarre finanziamenti per le mie ricerche, magari su temi molto "hot" al momento della richiesta, non posso nemmeno fare domanda a un fondo di ateneo se ne ho già uno ministeriale, anche se un progetto diverso, e viceversa. Questo è un esempio di clausola semplice. Ce ne sono di più complicate. Quei soldi però saranno stanziati comunque, magari non a progetti davvero rilevanti o di più basso profilo che, non dico debbano sparire, ma magari non hanno la stessa valenza internazionale.
La cosa brutta della faccenda, è che i responsabili dell'assegnazione dei fondi sembrano davvero dire che, se io ho già molti soldi non ne devo richiedere altri, perché c'è qualche altro sfortunato che non ne ha. Il problema è chiedersi perché non ne ha, se se li merita. Sulla valutazione e la meritocrazia, appuntamento ad un prossimo post.

Cofinanziamento

Inizio con questo (breve) post una sezione dedicata all'università e la ricerca in Italia come outside-insider.
Il primo aspetto che vorrei trattare è il cofinanziamento dei progetti di ricerca.
Partiamo dal fatto: in Italia, quando un progetto di ricerca è finanziato dal ministero, l'ateneo è tenuto a supplire una certa percentuale dei fondi. Supponiamo che il progetto valga 100. Il ministero mette 80, l'ateneo 20. Più consistente è il progetto, meno l'università è prona al suo finanziamento (specie se la situazione finanziaria non è buona)
Questo è un esempio di idiozia italiana. Si arriva al paradosso che un'università non ha interesse a promuovere la ricerca in quanto questa rappresenta un costo. E' vero che in base ai progetti finanziati l'università riceve dei fondi ministeriali, ma si tratta di un effetto indiretto e, a mio avviso, contorto. Negli USA -e in altri paesi civili- quando un progetto è finanziato, parte dei finanziamenti va all'ateneo! Quindi se il progetto vale 100, 80 vanno ai ricercatori, 20 all'ateneo! L'università a questo punto è spinta a finanziare la ricerca (e più importanti sono i progetti più li vorrà finanziare), assumere gente brava, capace di portare finanziamenti, invece che continuare ad assumere altri tipi di figura (argomento di un post futuro). Oggi capita che chi vuole proporre un progetto di grandi dimensioni vada dal rettore -o chi per lui- a chiedere il benestare, cosa che dovrebbe essere automatica invece che seriamente e freddamente ponderata.

Stato di immigrazione

Sono un immigrato. Straniero in terra straniera per guadagnarmi un pezzo di pane, ma anche per cercare di dare una svolta positiva alla mia vita, anche per vedere il mondo, perché no? Quando sono partito mi consideravo giovane, ora lo sono meno, sebbene il peso degli anni non pesi molto sulla mie spalle, quanto sulle prospettive di un ritorno nella mia patria. Ebbene sì, avevo intenzione di tornare, e ce l'ho ancora. Più passa il tempo, però, più ho la sensazione che mi tocchi restare qui. Non la vivo bene questa cosa: mi manca la mia terra, i miei amici, la mia famiglia. Mi manca anche la possibilità di fare qualcosa di concreto per il mio paese, in questi ultimi anni in balia di problemi politici ed economici a cui l'odierna classe politica pare non saper -e voler- dare risposte.
Mi ero posto un obiettivo. Al suo compimento me ne sarei ripartito. L'obiettivo si allontana sempre più, come la data del rientro. E più si allontana più difficile sarà il rientro in un paese soffocato dalla crisi economica, con uno stato sociale in via di smantellamento, una classe politica che sta torcendo la costituzione e le istituzioni ai loro fini che poco hanno a che fare con la democrazia.
Sono un ricercatore e vivo negli Stati Uniti.

Il ruolo della cultura

Io parto sempre da una domanda a cui cerco di dare una risposta. Quella di oggi è:
Quale background culturale dovrebbe avere un primo ministro, il presidente di un paese, un capo di governo? A parte l'identificazione della specializzazione migliore (giurista? ingegnere? letterato?), direi che la risposta dovrebbe essere qualcosa del tipo: "il più vasto possibile." Non solo il background, ma anche le capacità di sintetizzare la visione di una società (non dico e non auspico una ideologia), dei principi che la dovrebbero governare, il fine ultimo della società. Insomma, qualcosa del tipo: "Vorrei che il mio paese fosse così e così."
Quello che succede (guardandomi intorno) è invece che l'esito delle elezioni tende a premiare individui con scarse capacità intellettuali, quasi incapaci dei più semplici sillogismi. In sostanza l'elettore tende preferire, in media, i candidati, magari dai volti noti, con il profilo culturale che più ritengono simile al proprio. Altre soluzioni sono viste come elitarie e poco connesse alle situazioni contingenti. Non so se questo sia un fenomeno volontario o emergente, nel senso che non so se la scelta di voto è fatta in questi termini consciamente o no.
Nella società americana è rinomato il sospetto dell'elettorato nei confronti dei democratici, considerati elitari e lontani dai bisogni e desideri della gente. Ho l'impressione che in Italia, dove Berlusconi dimostra ogni giorno la sua mediocrità culturale, sia avvenuto qualcosa di simile. Qualcuno avrà votato per lui per non pagare l'ICI (poverino), ma molti altri devono essere stati attratti dalla sua comunicativa estremamente semplice e di scarsissimo spessore intellettuale.

Si potrebbe arguire che il popolo elegge i propri rappresentanti a propria immagine (e somiglianza), e che questo sia il vero senso della democrazia, ma credo che questa potrebbe essere al massimo l'argomentazione di un impreparato, o di uno in malafede. Sono convinto che il cittadino debba assumersi delle responsabilità (mio post democrazia e individualismo), non possa agire su base esclusivamente personale. Questo implica che debba anche conoscere i bisogni degli altri e della società, e che quindi debba avere una adeguata preparazione. Un mio amico dice che si dovrebbe dare il diritto di voto solo dopo il superamento di un esame di cultura generale. Non dico si debba arrivare a questo, ma non pare una cattiva idea. Certo questi discorsi lasciano il tempo che trovano, vista l'oggettiva tendenza dell'attuale governo all'uniformazione del pensiero, non solo della cittadinanza attuale, ma anche -forse soprattutto- di quella futura. Con la demolizione del sistema educativo statale, che dovrebbe avere (nei termini affrontati qui) un scopo che va ben oltre la formazione di lavoratori, il futuro del Paese è inevitabilmente non democratico, almeno non nel senso che la parola dovrebbe avere.

A volte penso che dovrei essere più ottimista.

Confutazione del razzismo

Spesso la più forte confutazione del pensiero razzista si riconduce a un vago "siamo tutti uguali" che ben poco influenza le opinioni dei difensori/assertori di qualche razza. Esistono delle argomentazioni forti e inoppugnabili che abbattano le posizioni razziste? Io ne conosco 2:

1) Confutazione biologica: A metà degli anni '90 alcuni ricercatori americani annunciarono di aver trovato il gene "della pelle nera". Si trattava di un gene presente nelle persone di colore, ma non nei bianchi o negli ispanici. Qui credo si debba aprire una parentesi: la pratica forense americana individuava 5 razze: bianca, afro-americana, medio-orientale, ispanica, nativa. Chiaramente si tratta di una classificazione approssimativa: che fine anno fatto gli indiani dell'india? L'aver individuato il gene che identifica gli afroamericani era di grande aiuto nelle ricerche investigative. In sostanza, se si rinveniva materiale contenente quel gene nella scena del delitto, si aveva una buona probabilità (a parte qualche percentile), di trovarsi di fronte a un individuo di colore. La notizia fece il giro del mondo raggiungendo anche i mass-media, con toni diversi a seconda dei punti di vista.
Bastarono pochi mesi, però, anche se i media non se ne accorsero, per sconfessare la validità generale di questa scoperta. In popolazioni miste, come quella brasiliana, il gene in questione era distribuito equamente nella popolazione: bianchi, neri, gialli, etc. Cosa era successo? Eravamo di fronte a scienziati razzisti?
Non era così. Gli scienziati erano in buona fede, solo che la loro ricerca analizzava persone americane. La ricerca non individuava il gene della pelle nera, ma indicava abbastanza inequivocabilmente che la società americana non sì è mescolata significativamente, ovvero ha mantenuto le razze sostanzialmente isolate le une dalle altre. In società come quella brasiliana, il mescolio delle razze ha prodotto una diffusione del gene in tutti i colori di pelle. Cosa ci dice questo? Che non si è trovato il gene del colore della pelle, ma, in qualche modo, il gene della segregazione razziale. Pare proprio che un gene della pelle nera non esista!

2) Confutazione antropologica: La lettura del libro "guns, germs, and steel" di Jared Diamond (credo sia stato tradotto in italiano: leggetelo!) è illuminante e sorprendente. Diamond si chiede: da dove deriva la nostra società. Battiato direbbe: "la fantasia dei popoli che è giunta fino a noi, non viene dalle stelle." In un percorso all'indietro ci spiega che tutto ebbe inizio circa 10000 anni fa, quando l'agricoltura cominciò a svilupparsi nelle tribù umane. La produzione del cibo è stata la chiave che più di ogni altra ha potuto mettere in moto lo sviluppo di una civiltà piuttosto che un'altra. Perché gli aborigeni australiani ci sembrano così primitivi? O gli indios dell'amazzonia, i pigmei africani, etc.? La domanda va posta, secondo Diamond, e secondo chiunque abbia letto il suo fantastico libro, in un altro modo: A cosa serve ad un aborigeno quella che noi chiamiamo civiltà? Se dopo 300 anni di presenza dell'uomo bianco in Australia la produzione di cibo (o meglio la varietà) non è comparabile a quella di 2000 anni fa in medio-oriente, cosa possiamo dedurre? Se un bianco-occidentale morirebbe dopo pochi giorni nei territori dove gli aborigeni vivono da migliaia di anni, chi dobbiamo desumere essere il più abile? Quello che si desume è che le popolazioni hanno sempre ottimizzato lo sfruttamento dei territori dove vivevano, fino a che i bianchi non arrivavano e spazzavano via tutto con le armi, ma soprattutto con le malattie (quasi tutte le vittime della conquista del nuovo continente sono avvenute per infezione di vaiolo, a cui le popolazioni occidentali avevano sviluppato delle difese che i nativi non potevano aver avuto).
Quindi pare che, invece che disprezzare o compatire le popolazioni primitive, le dovremmo ammirare e imparare da loro.

Democrazia e individualismo

Discutendo con alcuni repubblicani, qui negli Stati Uniti, mi sono ritrovato a pormi la seguente domanda: può un cittadino di una democrazia essere completamente egoista? La domanda va ovviamente specificata meglio. Secondo alcuni punti di vista ogni individuo è alla fine della fiera egoista, in quanto tende a soddisfare i propri bisogni. La domanda doveva essere posta in un altro modo: può un cittadino di una democrazia essere completamente individualista? Capisco che la domanda possa suonare ideologica, ma spero di evitare questo problema.
La questione è: democrazia significa "sovranità al popolo." Se ogni cittadino pensasse esclusivamente ai propri interessi personali, quindi, in sintesi, ai propri soldi, si potrebbe ancora parlare di democrazia? Cosa si dovrebbe governare? L'unico budget necessario servirebbe solo per mantenere in vita i tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Un servizio sanitario nazionale non sarebbe supportato, i prezzi delle cure andrebbero alle stelle, etc.
Fin qua pare che tutto abbia senso, ma cosa succede dal lato dei diritti?
Supponiamo ci siano due vicini di casa, uno ricco e uno povero. Quello povero non può pagarsi le spese mediche e muore. Il vicino ricco continua allegramente con la sua vita. Supponiamo anche che il ricco sia ricco di famiglia e il povero sia stato molto sfortunato e abbia dovuto spendere soldi per curare i propri familiari, così da non trovare facili alibi. Insomma, il povero muore solo perchè non ha il diritto di essere curato a dovere nel paese dove governa anche lui! Per come funzionano le democrazie, probabilmente il povero non è riuscito a portare abbastanza voti alla sua causa, forse non c'erano abbastanza poveri a votare. Siamo di fronte a una dittatura della maggioranza, non a una espressione di democrazia. Se si riconosce a ogni individuo il diritto alla salute, allora il servizio sanitario pubblico non sarebbe da porre al voto, ma semplicemente dovrebbe essere supportato. E il ricco dovrebbe pagarlo affinché anche il povero ne usurfruisca. Sarebbe costretto ad essere altruista e a pagare le tasse. La costrizione non dovrebbe però essere vista come la lesione di un diritto del ricco, ma come l'esplicazione di un dovere nel paese dov'è cittadino.

Ruoli sociali

Oggi mi sento un poeta. L'ha mai detta Dante una cosa del genere? "Oggi mi sento poeta, ieri invece no, era più una giornata da maniscalco, una giornata da piantare chiodi, anche se al mio tempo," è sempre Dante che parla, "anche se al mio tempo, un maniscalco è molto di più, molto di più, è una delle figure più importanti della vita civile, altro che un poeta. Un poeta alla fine cosa fa? Mangia quando gli riesce e consuma inchiostro e carta, inciampa il cammino di chi è utile, vagando con gli occhi in su sperando che qualche musa gli ispiri qualcosa di decente, dimodoché qualche ozioso personaggio ne goda." Forse è meglio che mi metta a lavorare anche oggi, il poeta lo farò un'altra volta.

Fermo nell'ideologia

Sono andato a fare l'analisi specialistica stamattina e mi hanno trovato un cancro in qualche ghiandola che non so. E' da mesi che passo da un medico a un'altro, e finalmente hanno trovato qualcosa. Ho speso un sacco di soldi, tutti i miei risparmi, per una diagnosi inequivocabile. E ora, che dovrei operarmi, non ho più nulla. Devo andare in una clinica pubblica, con medici di seconda classe, a farmi macellare. Mi hanno detto che la mia malattia si cura, e con buona probabilità di sopravvivenza, solo in alcune cliniche specializzate a Milano, e ora non ho nemmeno i soldi per prendere il treno e andarci. Tanto vale che vada a prendermi una verruca in una piscina a Lourdes.
Qualcuno dirà che avrei dovuto essere più previdente e non spendere i miei soldi in lusso sfrenato, ma non sapevo dove mettere i soldi del taglio delle tasse. Qualcuno dirà che se avessimo avuto un sistema sanitario nazionale decente avrei potuto usurfruire di una clinica pubblica decente, ma questo non è il punto. Il punto è che io, piuttosto che pagare il dottore ai comunisti, preferisco crepare!

Inizio

Prefazione: Questa è una copia del blog che ho sul ilCannocchiale, piattaforma chemi sta deludendo parecchio. Copio -a mano- i post da lì a qui. Poi vedrò cosa fare.

Questo blog è dedicato ai diversi punti di vista. Cercherò di postare articoli molto brevi e, spero, ironici, basati sullo spostamento della prospettive allo scopo di evidenziare la vacuità, l'inconsistenza, e altre cose negative, del tipo di pensiero che non condivido. Si tratta quindi di un blog politico, ma spero non noioso.

Tra i miei propositi c'è quello di mantenere questo blog vivo!