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Monday, July 23, 2012

Cattive compagnie

Difficile concentrarsi in autobus quanto basta per leggere "Evolutionary Epistemology." Non sono i sobbalzi, le accelerazioni o il rumore monotono, sono le persone che parlano a volumi da megafono da soli, o meglio al telefono. In particolare, stasera, una ragazza che raccontava di non so cosa, quelle frasi del tipo: "i miei mi hanno detto che mi regalano 'sta cosa ma io gli ho detto 'siete sicuri? e loro non hanno detto più niente hahahaha" il tutto condito con molta enfasi, che rendeva la cosa, se possibile, ancora più snervante. La telefonata si è dilungata per un tempo apparentemente illimitato. Le mie telefonate durano di solito meno di 15 secondi: arrivo, ritardo, puoi fare questo, ci vediamo tra poco. Quando aspetti che qualcuno finisca di telefonare per fare qualcosa (nel mio caso leggere in santa pace) il tempo si dilata e ogni ripetizione di una parola, di una frase, di un concetto, diventa il movente per il danneggiamento aggravato di proprietà privata. Un altro tizio, salito una fermata dopo, aveva una cadenza particolarmente insopportabile. Stava spiegando a qualcuno che qualcun altro aveva passato un brutto periodo e che lo avrebbe visto da lì a poco. Fortunatamente lo aveva sentito meglio che qualche giorno prima. La cosa fastidiosa era che iniziava ogni frase a volume altissimo e finiva volume basso, costringendomi a vere e proprie acrobazie di attenzione. Qui la ripetitività era geriatrica, mentre il tizio e, probabilmente, quello con cui conversava erano sì e no ventenni, non so se per mancanza di campo o per semplice rincoglionimento dei soggetti interessati. Per altro non credo di violare nessuna privacy in questa cronaca, visto che i suddetti della loro privacy pare interessasse molto poco. Successivamente, attraversando la stazione ferroviaria, tre ragazze impegnate in altrettante conversazioni telefoniche una accanto all'altra su una panchina, un ragazzo che si ascoltava la musica sfondandosi le orecchie con musica pop, altri che evidentemente giocavano a qualche videogioco.
Non è certo la prima volta che noto questo, e non sono né il primo né l'ultimo, ma oggi, dato un periodo di maggiormente acuita misantropia, mi sono ricordato di annotare come tutto questo grande sfoggio di appendici a batteria non significhi che una cosa sola: le persone detestano stare in propria compagnia. Proprio non possono stare sole nemmeno per pochi minuti, devono per forza occupare il loro cervello con qualcosa di totalmente e banalmente inutile. Il fatto che si lobotomizzino potrebbe anche essere irrilevante se non fosse per due aspetti particolarmente seri. Il primo. questi individui fanno parte della società in cui vivo anch'io, quindi polis futtutis, contribuiscono a forgiare l'ambiente in cui vivo anche dal punto di vista formale.  Il secondo, più immediato, mi rompono le palle quando voglio stare un po' con me stesso.

Friday, May 11, 2012

Elogio del Secchione

Una maggioranza o anche semplicemente un gran numero di persone possono non avere ragione. Questo controintuitivo concetto (che è controintuitivo se si applica la teoria frequentista delle probabilità) è ben noto e gli esempi si sprecano. Il problema è che, qualora esistesse una prova, o una forte evidenza, che la maggioranza si sbaglia, questa prova sarebbe conosciuta solo da una minoranza della minoranza. Di solito, chi conosce la prova identifica chi non la conosce con uno spregiativo massa. La massa, dal canto suo, spesso non solo ignora chi conosce la prova, ma anzi, non né pensa particolarmente bene. Conoscendosi maggioranza, di solito, vede le minoranze come qualche forma di pericolo, o di non uniformità.

Questo fenomeno è molto simile a quello sperimentato da ogni secchione almeno una volta nella vita: isolamento, derisione, bullismo, incomprensione. Si può spesso identificare senza grossi problemi l'origine dei comportamenti, non a caso siamo secchioni. Si tratta perlopiù di essere considerati diversi dal resto del branco, quindi, per l'assunto di uniformità della natura di Hume, anche sbagliati. In parole povere "se non sei come me hai qualcosa che non va, se poi mettiamo anche che ti credi superiore giusto perché perché sai ragionare, allora mi stai proprio sul cazzo!"

Il membro della massa che si trovi a leggere qui (e che è riuscito a passare indenne attraverso la teoria frequentista delle probabilità e la filosofia di Hume), potrebbe ben dire che Steve Jobs, di cui ha saputo della morte, non era affatto bravo a scuola, e anzi, era un frikettone allucinato. Si dà il caso che si possono fare due considerazioni in questo caso. La prima è che il secchione ha di solito una certa perseveranza e cocciutaggine nel capire e nel produrre, cosa che fa di Jobs un secchione. La seconda è che, sebbene lui c'abbia messo molta energia, i prodotti per cui è famoso non esisterebbero se non esistessero mandrie introverse di ingegneri, ricercatori, designer, che hanno speso molti week-end non invitati a molte feste. Gente che leggeva libri di fantascienza, forse, o programmava un computer giusto per il divertimento di farlo. Di fatto è assodato che la necessaria creatività per produrre innovazione deriva dai secchioni, specialmente quelli che sentono che devono fare ciò che stanno facendo.

Come dice Susan Cain, nella sua apologia degli introversi, se mettete delle persone in una stanza queste tenderanno a uniformarsi su delle idee, a scimmiottare, letteralmente, le persone più carismatiche, ovvero quelle che hanno un migliore eloquio, ma non c'è nessuna correlazione tra eloquio e intelligenza creativa. La creatività è molto più spesso attiva nella solitudine che tra la folla, più spesso dalla lettura che dall'aperitivo in piazza.

Quando la vostra suoneria del cellulare partirà a tutto volume con l'ultima hit dance ascoltata nella vostra trasmissione televisiva preferita, ricordate che potete ascoltarla, voi e tutti quelli che vi circondano, solo grazie al fatto che esistono i secchioni e, speriamo, esisteranno anche in futuro. E se mi invitate a bere l'aperitivo, magari qualche volta ci vengo pure io.

Tuesday, February 28, 2012

Al traino

Ero sulla nave che stava andando alla deriva ma non ci avevano detto niente, tutto procedeva come se niente fosse, il bar, la discoteca, la palestra. A posteriori potrei dire che si sarebbe potuto notare un maggiore nervosismo da parte dell'equipaggio, ma sarebbe falso. Quando sono arrivate le imbarcazioni per trainarci allora ci hanno informato che era da 10 ore che vagavamo senza controllo in balia dei venti e delle correnti e che c'era stato un incendio, domato in 5 ore con due feriti lievi.

Un folto gruppo fra noi, e io fra questi, quasi tutti ingegneri e avvocati, ha cominciato a protestare per quella inaccettabile mancanza nel non averci informati di cosa stava accadendo. "In un mondo civile," argomentavamo, "noi passeggeri, viaggiatori, cittadini, clienti, eccetera, dovremmo essere consapevoli di ciò che accade poter esercitare il nostro diritto alla scelta." La risposta unanime dell'equipaggio era del tipo "se vi avessimo detto cosa stava succedendo si sarebbe diffusa agitazione e panico in voi 4000 passeggeri, e la cosa, oltre a non servire, avrebbe causato problemi molto peggiori di quelli in cui eravamo." Reagivamo furenti a questa attitudine a trattarci come impicci, come bambini, o come portafogli gonfi con camice hawaiane.

Un uomo sugli ottant'anni, con la faccia allegra, vestito con i tipici calzoncini la cui comodità superava di gran lunga la sconvenienza estetica, si staccò dal bancone del bar per venire proprio da me a dirmi: "io sinceramente ho preferito divertirmi come facevo prima, e ora continuo a farlo fino a che il bar non chiude. Lei non è arrabbiato perché le hanno tolto qualche diritto astratto, o la possibilità di intervento sulla sua vita, lei è arrabbiato perché le hanno tolto una possibilità di avventura, che certo in questa nave non le sarebbe dovuta capitare. Ma senta me, adesso che ci trainano in qualche porto, si beva qualcosa e mangi, non pensi alla linea, e si rilassi."

Sono così entrato nel gruppo di quelli che rimanevano in silenzio ad aspettare lo svolgersi degli eventi. Oggi sono qui, pronto a riprendere il lavoro dopo la vacanza, finalmente rilassato.

Thursday, February 23, 2012

Chi siamo?

Presa dal Corriere del Ticino del 22 Feb. 2012
Questo post parte da una profonda irritazione che mi ha dato un articolo sul Corriere del Ticino del 22 Febbraio 2012. In genere tendo a non scrivere per sfogo, ma stavolta va così.

Come potete leggere nel sottotitolo dell'articolo, Andy Warhol è definito un pubblicitario. Questo è come definire oggi Einstein un impiegato dell'ufficio brevetti di Berna, o come dire che Tom Waits è un portinaio, Paolo Conte è un avvocato, che Michael Bublé è un pescatore... Beh, questa è l'eccezione...

Che cosa siamo? Nella società industriale (e post) è molto consueto presentarsi con frasi del tipo: "sono un assicuratore," "sono una professoressa," "sono un imprenditore", etc. In una realtà fantozziana la ricerca della propria identità termina con l'acquisizione del posto fisso. Quando il posto fisso è perso l'identità è persa, o rimane appiccicata a un passato imperfetto. "Ero un camionista." Curioso il fatto che il passato imperfetto si chiami così per il fatto che ci si dovrebbe riferire, con questo tempo verbale, a eventi e situazioni che non si sono concluse. Bello no? I bambini usano l'imperfetto per denotare una situazione di gioco mentre il gioco è in corso ("facciamo finta che ero ..."), negli adulti che perdono il lavoro è un appliglio le cui resistenza e necessità sono tutte da verificare.

Quindi per il giornalista che ha scritto l'articolo, Warhol è qualcosa solo fintanto che ha un lavoro, mentre quando fa semplicemente l'artista no. Lo dicono sempre i genitori: "smettila di fare castelli in aria e trovati un lavoro". (Più semplicemente è probabile che gli facesse schifo Warhol e che lo abbiano obbligato a scriverne).

Io propenderei a definire Warhol artista semplicemente perché è sicuramente più vicino a quello che lui sentiva di essere. Certo non si sarebbe definito seriamente pubblicitario. La questione dell'identità è comunque seria, e non si dovrebbe chiedere a qualcuno "chi sei?". Cosa si potrebbe risponcere? Personalmente non saprei cosa dire e, dopo aver balbettato qualcosa, l'ansia mi farebbe estrarre una mitraglietta e uccidere gli astanti in un delilrio di vaneggiamenti.

Ammetto che queste considerazioni sono dettate dal fatto che non me la sono mai sentita di identificarmi con quello che facevo (e faccio), il che può essere visto sia come un baluardo di integrità che come la predestinazione all'insuccesso. Non ho mai raggiunto l'autoconsapevolezza fantozziana, che per quanto mi riguarda potrebbe anche essere il più alto traguardo della vita, come dire che la rivoluzione industriale ci ha portato tutti più vicini all'illuminazione buddista. Ritengo però più probabile che non sia così.

Tuesday, February 7, 2012

Non fidarsi è meglio

Un viaggio in treno ha sempre quel momento in cui la noia prende il sopravvento e i pensieri vagano per i fatti loro come poco prima di dormire. Fuori è buio e il paesaggio non aiuta. Guardando la bottiglia di Evian vedo che il tappo è bloccato da una linguetta di gomma. La struttura del tappo è complessa, nessun dettaglio è lasciato al caso. La linguetta è fatta in modo tale da staccarsi la prima volta che si apre la bottiglia, mentre rimane appoggiata appena se si prova a rimetterla a posto.

A un alieno che vivesse in una civiltà perfetta questo meccanismo sembrerebbe assolutamente inutile, a un terrestre, magari un po' paranoico, la cosa non desterebbe nessuna sorpresa. Se qualcuno cercasse di aprire la bottiglia prima di averla comprata, e la rimettesse al proprio posto nello scaffale, non riuscirebbe ad attaccare propri i germi al malaugurato acquirente, anche se non si accorgesse prima del pagamento della malefatta.

Fiducia. Siamo di fronte a una tipica invenzione dettata dal fatto che gli individui non si fidano gli uni degli altri. Altrimenti quel sotterfugio non avrebbe proprio senso, farebbe solo aumentare i costi di produzione senza dare nessun vantaggio né al venditore né al consumatore. Qualcuno, magari il nostro amico alieno che vive in una società perfetta, potrebbe in effetti pensarla così. Peccato che il nostro alieno non potrebbe venire a conoscenza di questa inutilità. In una società in cui regna la fiducia e la pace non potrebbe svilupparsi la tecnologia necessaria agli spostamenti nello spazio profondo, ma nemmeno tecnologie estremamente più semplici, se non in tempi molto lunghi.

Infatti, quasi tutte le tecnologie che usiamo oggi sono state sviluppate nel presupposto che gli altri umani non aspettino altro che farci a pezzetti, se non solo cercare di fregarci. Si tratta della guerra, my friend. Le più importanti invenzioni che hanno reso possibile il mondo in cui viviamo, vengono da finanziamenti enormi elargiti al fine di non farsi fregare (e di fregare quanto più possibile in caso i cattivi attaccassero). Quindi pare che la scarsa fiducia, il tragedy of the commons, il diritto alla difesa e la prerogativa dell'attacco, sono i motori fondamentali dello sviluppo della società umana.

Ma allora il pacifismo è una minchiata? Direi di no. Forse siamo a un punto della storia in cui si potrebbe tutti essere pacifisti e aborrire la guerra. In fondo viviamo bene. Le leggi del mercato ci mantengono in vita e non ci permetterebbero di auto-sterminarci, altrimenti il mercato morirebbe. Ma certamente non avremmo mai potuto rinunciare alle guerre passate, ai morti che ci sono stati e alle angherie schifose che sono successe fino a ieri.

Però, in fondo, tutti vogliamo considerarci persone di spirito buono e di buona volontà, il cui contributo al mondo è la serenità e la pace.